Donatella Caprioglio: lo spazio abitativo è lo spazio interiore
Chi è la Dott.ssa Donatella Caprioglio
Psicoterapeuta specialista dell’infanzia, docente universitaria in Italia e in Francia, ha introdotto la “psicologia dell’abitare” descrivendola e facendo molti esempi in almeno due libri:
“Nel cuore delle case” (Ed. Il Punto d’Incontro, 2012) e “Mura sensibili – psicologia dell’abitare” (Ed. SplendidaMente, 2022). MEMber della prima ora, organizza partecipati seminari formativi che non lasciano indifferenti.
L’intervista alla Dott.ssa Donatella Caprioglio per i nostri MEMbers
Incontrare Donatella Caprioglio è anzitutto essere accolti da una voce che ti avvolge e ti trascina nei territori a lei più congeniali con la semplicità della conoscenza e dell’esperienza.
L’abbiamo intervistata telefonicamente per introdurre la sua “Tavola Rotonda” di questo autunno e perché abbiamo già pubblicato una toccante mail che ci è arrivata da Teresa (nome di fantasia di una corsista che ci ha chiesto l’anonimato), dopo aver frequentato i suoi webinar: leggetela qui.
MEM – Dott.ssa Caprioglio, anzitutto vorremmo sapere perché ha sentito l’esigenza di occuparsi della “psicologia della casa”: perché proprio questo approccio così particolare?
D.C. – Abitare uno spazio, una casa, la propria casa, riflette l’abitare se stessi. È abitare se stessi. Il parallelo psicanalitico è immediato: per me, che mi occupo da sempre dell’infanzia, è stato fin da subito evidente che la costruzione della struttura di una personalità equivale a quella di una casa. Se le fondamenta sono fragili, l’intera struttura ne risentirà nel tempo e la persona non sarà in grado di superare indenne le prove che la vita ci mette di fronte. Se la casa è fragile, sarà difficile da riparare, proprio come le persone. Di più, il modo di abitare le case è indice di come abitiamo noi stessi: pensi che ogni stanza ha un equivalente simbolico in parti della nostra psiche. Immagini cosa può voler dire costruire, o ristrutturare, o anche solo riordinare una casa che si abita. O non averla, o non averla più, o non averla mai avuta. La ricerca della casa, intesa come luogo dove “sentirsi a casa propria”, ha a che fare con l’accoglienza; la bambina o il bambino che sono stati rifiutati dai genitori, per esempio, avranno molte più difficoltà degli altri o delle altre a vivere il senso di accoglienza e si sentiranno degli estranei ovunque. La relazione con i genitori fin dai primissimi attimi di vita è una chiave di volta per il futuro delle persone, proprio come la costruzione delle fondamenta per le case.
MEM – Lei ha spesso dichiarato che chi esercita professioni legate all’abitare in realtà è un “chirurgo dell’anima”, spesso del tutto inconsapevole. Per questo insiste tanto sulla formazione? Perché ha scelto la modalità della “tavola rotonda” per MEM?
D.C. – La consapevolezza si acquisisce attraverso la conoscenza e l’esperienza, vale per qualsiasi aspetto della vita, non crede? Mi sono resa conto che tutte le professioni dell’abitare, liberate da quelle assurde gerarchie che spesso le accompagnano, vanno ben aldilà del loro aspetto tecnico. Chi le esercita, però, nella stragrande maggioranza dei casi non ne è consapevole.
La formazione deve quindi mirare a far porre almeno due domande essenziali al professionista dell’abitare; la prima è: perché faccio questo lavoro? Ogni professione che intraprendiamo, specie se svolta con passione e determinazione, ha una motivazione psichica profonda e andrebbe indagata. Perché questa consapevolezza libera la capacità più importante da avere per chi si relaziona con un/una cliente che ha a che fare con la casa: saper ascoltare senza pregiudizio.
La seconda è: che valore ha la casa per il cliente? La risposta è che si tratta di uno spazio fisico cui corrisponde uno spazio psichico. Ecco quindi che diventa fondamentale conoscere almeno le tecniche minime per saper maneggiare l’equivalente psichico dell’azione fisica sulla casa. Cosa che ad oggi non è prevista nella tradizionale formazione di questi professionisti.
La modalità della tavola rotonda permette quel confronto professionale legato alle singole esperienze in grado di aumentare proprio l’ascolto empatico e la restituzione di quel che si riceve ascoltando; è un esercizio utilissimo che si impara attraverso tecniche ben precise che esporrò.
MEM – Perché è importante capire il committente?
D.C. – Capire in senso profondo il committente significa capirne le motivazioni che lo spingono a fare un progetto sulla sua casa scegliendo proprio noi. Comprese le motivazioni non dette o addirittura non conosciute dallo stesso cliente. Significa capire fin dal primo colloquio se la relazione professionale e umana funzionerà o meno. Evitando perdite di tempo e frustrazioni da una parte e dall’altra. Le tecniche di ascolto empatico sono molto potenti nello svelare le problematicità.
MEM – Eppure il cliente potrebbe ripensarci e magari mandare tutto all’aria all’ultimo momento, per esempio. Come gestire una situazione del genere e quali conseguenze sul professionista, in particolare sulla sua autostima?
D.C. – Vede, avere un’idea iniziale e magari cambiarla in corso ha a che fare col liberare uno spazio e col rimodellarlo. Sia in senso fisico che in senso psicologico. E’ un percorso che richiede tempo, talora anche tanto tempo. Con una casa è relativamente breve e facile, in psicoterapia è molto più lungo e difficile, ma i meccanismi che si muovono sono gli stessi. Anzi, spesso coincidono: buttare giù un muro fisico può essere altrettanto difficile e doloroso quanto abbattere una barriera mentale perché, come abbiamo detto, c’è un parallelismo assoluto tra le stanze di casa e la nostra mente.
Sul fallimento di un progetto, mi sento di dire che il professionista dell’abitare subisce a sua insaputa una proiezione da parte del cliente in tutto e per tutto simile a quella che si ha con lo psicoterapeuta o a quella del bambino nei confronti dei genitori.
Spesso il cliente vive una vera e propria angoscia dell’abbandono, sul finire di un progetto, per cui è importante saper gestire la fase del distacco.
Anche l’ambivalenza, il “non va mai bene niente” spesso riproduce metaforicamente un processo di crescita che va gestito.
MEM – Un’ultima domanda che è più una curiosità: come sono stati accolti i suoi studi in Francia e in Italia?
D.C. – Le dirò una cosa che la stupirà: i francesi fanno molta più fatica di noi ad accettare la psicologia dell’abitare. Forse perché hanno una formazione più razionalistica, più cartesiana della nostra. Anche perché leggono più di noi. In Italia invece è più facile la comprensione emotiva, tuttavia è molto difficile diffondere le idee… e questo spiega in parte perché in Italia sono pubblicata da piccole Case Editrici. Che a me vanno benissimo in quanto raggiungono meglio la nicchia interessata all’argomento. Il resto lo fa il passaparola, ma non basta perché ci vuole formazione. Iniziative come MEM sono preziosissime anche per questo.
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