Studio della relazione uomo-ambiente: piccola storia di psicologia ambientale.

Avete presente quando entrate in un posto e non sentite già l’ora di uscirne?

O, viceversa, quando un altro vi inghiotte dal benessere e dalla familiarità che infonde?

Ricordate quella domenica quando non avete fatto un emerito bel niente ma vi sentivate soddisfattissimi di averlo fatto perché il posto in cui siete andati in beato ozio vi ha restituito tanta serenità ed energia?

E il disagio che provate quando passate davanti a quell’angolo di casa che avevate giurato di sistemare una vita fa e che invece resta lì, inesorabile, ad infliggervi fastidio o noia?

O, ancora, la sensazione di estremo appagamento quando, dopo aver lungamente progettato e realizzato la casa delle vostre idee, finalmente è pronta ad accogliervi pulita e ordinata, con le luci giuste e alcuni dettagli pensati per stupirvi e per stupire?

Ecco, stiamo descrivendo luoghi, percezioni e meccanismi che vengono studiati e descritti da una branca specifica della psicologia, la psicologia ambientale.

Al principio fu la “Psicologia ecologica”

La storia della psicologia ambientale, cioè di quella disciplina che studia l’interdipendenza tra ambiente ed essere umano, è tutto sommato recente perché comincia negli Stati Uniti negli anni Cinquanta del secolo scorso.

Nel 1951, infatti, per la prima volta gli studiosi Barker e Wright si interrogarono su come lo spazio urbano influenzasse il comportamento degli individui, definendo il proprio lavoro “psicologia ecologica”.

Seguirà nel 1958 la prima ricerca sistemica sugli effetti dell’assetto spazio-architettonico degli ospedali psichiatrici nei pazienti che vi erano ricoverati; fu il primo studio commissionato da un Ente istituzionale, l’US National Institute of Mental Health.

Nel Vecchio Continente, frattanto, si cominciarono a studiare i processi psicologici individuali e sociali connessi a situazioni ambientali, saranno il Regno Unito, l’Unione Sovietica, la Svezia, l’Olanda, la Germania e la Francia a fornire i maggiori contributi in tal senso.

Da questa parte di mondo non si parla (ancora) di “psicologia ecologica”, né tantomeno di “psicologia ambientale” ma piuttosto di “psicologia della percezione” e di “psicologia sociale”.

La prima, più datata, definisce l’ambiente solo in termini fisico-percettivi; la seconda, invece, allarga l’orizzonte allo studio delle interconnessioni create dalle relazioni e dalle forze sviluppate nel rapporto tra l’ambiente e l’essere umano che lo abita. La psicologia sociale “pesca” a piene mani dagli studi statunitensi usando gli strumenti concettuali e metodologici introdotti dalla “psicologia ecologica”.

Il Grande contributo della Psicologia sociale

Sempre nel 1951 lo psicologo di origine polacco-tedesca Kurt Lewin, formula la “teoria del campo” gettando le basi della nuova disciplina attraverso alcune osservazioni che continuano ad avere la loro validità ancor oggi.

Lewin osservò che l’ambiente ha qualità fisiche e psicologiche proprie e che le personalità di ognuno sono un intreccio dinamico tra fattori costitutivi ed esperienziali che si sviluppano all’interno di un ecosistema ambientale che li influenza.

In particolare, il paesaggio urbano non è altro che una ricostruzione percettiva dell’osservatore, sostenuta, facilitata o inibita da elementi fisici e spaziali, da elementi cognitivi e affettivi, da processi di comunicazione e simbolici.

La percezione qualitativa dell’ambiente, quindi, coinvolge ed è influenzata sia dal mondo fisico palpabile, sia dagli aspetti psicologici individuali, sia da quelli di condivisione collettiva.

Nel 1978 lo studioso e artista italiano Gaetano Kanizsa osserverà che in uno spazio le proprietà del tutto non sono la semplice somma delle proprietà delle singole parti di cui è composto. Ma anche che la proprietà di una parte dipende dal tutto nel quale è inserita, confermando così la stretta, dinamica e complessa correlazione tra ambiente ed essere umano.

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Gli studi teorici e i risultati sperimentali sulla percezione umana gli faranno affermare che esistono strutture generali e ricorrenti che tendono a suscitare una “buona forma” (gestalt) alle percezioni elementari stimolate dall’ambiente fisico in un dato momento.

Nel 2004 lo junghiano James Hillman osserva che nell’interazione tra psiche e mondo esterno, l’individuo e l’ambiente possono assumere due dimensioni o generare due atteggiamenti ben precisi: quello dell’integrazione e quello dell’opposizione.

Nello specifico, Hillman individua nelle città i luoghi dove riecheggiano maggiormente le dimensioni psichiche dell’interiorità suggerendo ai terapeuti di ricondurre le sofferenze psichiche individuali alla realtà ambientale in cui gli individui sono inseriti.

Le esperienze che abbiamo avuto negli ambienti in cui abbiamo vissuto li rendono contesti accessibili o inaccessibili. Del resto, fu lo stesso Lewin ad introdurre nel 1951 una equazione matematica per spiegare le influenze tra comportamento umano ( C ), ambiente in cui si realizza ( A ) e caratteristiche della singola persona ( P ):

C = f(P x A)

dove il Comportamento umano è funzione ( f ) diretta delle caratteristiche innate del singolo e dell’Ambiente in cui vive.

 

La psicologia ambientale, finalmente. 

Nel 1973 sarà lo psicologo statunitense William Ittelson, considerato il padre della psicologia ambientale, a dedicarsi specificatamente allo studio degli ambienti.

Anzitutto egli notò che non esistono ambienti “neutri”, ogni ambiente possiede una propria “atmosfera” che esercita una forte influenza, un forte peso, sull’essere umano.

L’uomo e l’ambiente si influenzano in una relazione sistemica al punto che ogni suggestione sensoriale ha un effetto di attrazione o repulsione psichica; l’ambiente può condizionare talmente il nostro campo percettivo da indurci comportamenti non controllabili, non autonomi. Pensiamo a come reagiamo se siamo sollecitati da determinati odori, per esempio. O se ascoltiamo determinati suoni (per esempio il rombo del tuono o il boato che precede un terremoto).

La struttura fisica che compone i nostri spazi di vita, unita alla pressione sociale e alla nostra innata tendenza a conformarci ai comportamenti dei nostri vicini, seleziona i frequentatori di quegli spazi inducendo comportamenti contestuali: pensiamo a come ci atteggiamo in un ambiente considerato “sacro”. O in una discoteca piuttosto che in una scuola.

Ogni individuo dà forma e modifica l’ambiente mentre l’ambiente “offre” vincoli e possibilità all’individuo, influenzandone le scelte.

L’elemento centrale dell’intero meccanismo resta la percezione. Nel 1979, Kanisza distingue i processi percettivi tra primari e secondari e immaginativi, osservando che i secondi prevalgono sugli altri.

Tra il 1973 e il 1986 gli studi di Downs, Stea e Perussia introducono il concetto di “immagine”: l’ambiente è il frutto di un processo interpretativo dei dati percettivi, quindi subisce inevitabilmente le influenze dell’esperienza dell’osservatore.

E l’esperienza non è altro che la somma della conoscenza accumulata in ogni momento della nostra vitacon i valori, le relazioni, le caratteristiche individuali e la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e del mondo.

 

La centralità della percezione

James Gibson, padre della “teoria ecologica della percezione” e grande studioso della percezione visiva, inquadrerà definitivamente i meccanismi che si attivano nel nostro rapporto con gli ambienti:

  1. Rappresentazione spaziale: la percezione immediata di un ambiente;
  2. Valutazione ambientale: gli atteggiamenti o le preferenze individuali e collettive rispetto a quel determinato ambiente;
  3. Reazioni: le risposte individuali e collettive all’impatto con quell’ambiente;
  4. Azioni: il comportamento che adottiamo all’interno di quell’ambiente.

Gibson noterà che ogni ambiente (o “setting”, o “layout”) è dotato di specifiche qualità (“affordances”) le cui proprietà sono percepite da ognuno di noi come utili per il soddisfacimento di bisogni specifici. Più precisamente, le percezioni ambientali legate ai sensi hanno come scopo finale l’adattamento. Cioè la sopravvivenza.

Del resto, già nel 1947 Wolfgang Köhler notava che l’ambiente non è un “fatto sensoriale neutro”, la percezione delle sue componenti le cònnota dandogli caratteristiche psicologiche precise: ciò vale per i paesaggi naturali, per le vedute di città, per il tempo meteorologico, ecc. Se ci pensiamo bene, spesso associamo a questi aspetti delle caratteristiche psichiche; associazione non a caso molto impiegata da pubblicitari e storyteller.

 

Concludiamo questa carrellata (certamente non esaustiva) citando i lavori di Asch,  psicologo di origine polacca molto noto per i suoi studi sui comportamenti indotti: nel 1952 affermava che tutti gli esseri umani vogliono che il mondo nel quale siamo immersi abbia un significato e quindi vogliono sentirsi in un rapporto significativo con l’ambiente.

Noi ci vediamo come radicati nell’ambiente circostante perché esso è come se fosse un’estensione di noi stessi. Crediamo che questa frase riassuma perfettamente il senso profondo della psicologia ambientale e della sua applicazione nelle professioni dell’abitare.