Wayfinding: orientamento e cognizione dello spazio
Oggi esploriamo l’affascinante mondo del “Wayfinding”, unaa lettera traducibile con “trovare la strada” o “trovare la via”. Il termine fu introdotto dall’urbanista Kevin Andrew Lynch negli anni ’60 riferendosi al sistema di segnaletica stradale, ai nomi delle vie e ai numeri civici di una città.
Nel tempo e con l’uso, si è arricchito di significati più profondi ed ampi, tanto che oggi potremmo associarlo ad almeno tre definizioni:
- Tutti quegli artefatti strumentali progettati e ideati per spazi in cui abbiamo bisogno di orientarci, muoverci, abitare.
- Il modo in cui siamo in grado di organizzare lo spazio costruito intorno a noi e il modo in cui lo “sistemiamo” per sostenere e indirizzare il nostro orientamento.
- Avere una piena cognizione dello spazio in cui ci troviamo, ovvero sapere:
- Dove siamo
- Dove siamo diretti
- Come è possibile arrivarci
- Riconoscere la destinazione prescelta
- Cambiare rotta in modo del tutto indipendente
Dal punto di vista delle neuroscienze, il wayfinding coinvolge principalmente l’ippocampo, preziosa struttura cerebrale che contribuisce alla memoria a breve e a lungo termine, alla memoria spaziale e all’orientamento, insieme all’amigdala, appartenente al sistema limbico, importante per la regolazione della risposta emozionale e comportamentale.
Ippocampo e amigdala fanno parte del lobo temporale del cervello.
Secondo alcuni studiosi, la mappatura dello spazio e la codifica degli eventi in un contesto localizzato nella memoria hanno prodotto l’immaginazione e il pensiero scientifico. Il prof. Louis Liebenberg dell’Università di Harvard arriva ad affermare che gli ominidi cacciatori-raccoglitori hanno dovuto imparare presto ad orientarsi creando ipotesi di lavoro basate su prove sporadiche, conoscenze acquisite o comunicate, capacità di risolvere nuovi problemi, scoprire nuove informazioni. Tanto da fargli dedurre che il pensiero scientifico-razionale risale a quel periodo preistorico, quindi molto prima della civiltà greco-antica alla quale siamo soliti far risalire questo tipo di pensiero.
Non solo: l’osservazione e il monitoraggio di uno spazio e di ciò che c’è al suo interno produce (ed è determinato da) inferenze e deduzioni logiche; l’ominide cacciatore avrebbe dunque sviluppato una vera e propria sequenza narrativa basata sui segni percepiti per indicare cosa è successo in un luogo e dove si è avventurato un animale.
Questa struttura primordiale è evoluta in quello che oggi è considerato il fulcro dell’intelligenza umana, ovvero il pensiero e l’espressione attraverso storie e narrazioni. A loro volta generatrici della possibilità di vedere noi stessi da una prospettiva esterna (pensiero autonoetico) e della capacità di essere consapevoli della nostra esistenza come entità nel tempo (coscienza autonoetica), entrambi elementi caratterizzanti del nostro essere umani.
I problemi nascono quando si rappresenta uno spazio attraverso una mappatura (o una storia, o una narrazione, che in questo senso possono essere viste come “mappe”) e si cerca poi di correlarla col mondo reale. E’ proprio in questo processo che si attiva il ragionamento spaziale: pensiamo ad esempio alle istruzioni di montaggio di un oggetto, soprattutto quando procedono per immagini.
Il buon wayfinding può, in questo senso, creare un paradosso: sostituire il ragionamento spaziale con l’abitudine. Il nostro cervello, correttamente orientato in uno spazio dagli artefatti, può automatizzare il suo orientamento ogni volta che ritorna in quel luogo. Se il neuroscienziato può arricciare il naso vedendo compromessa una funzione cerebrale creativa, il progettista ne gioisce perché ha una misura oggettiva dell’efficacia del suo lavoro!
Gli elementi di wayfinding sono dunque misurati da come gli utenti sperimentano un ambiente attraverso il proprio sistema sensoriale ed emotivo. In questo senso diventa fondamentale che il wayfinding sia anche efficace.
Ma cosa intendiamo per “efficace”?
Un wayfinding comunica efficacemente quando è realizzato da sistemi architettonici e grafici che facilitano il passaggio da un punto ad un altro dello spazio in modo rassicurante per l’utente e in modo da fornirgli risposte a potenziali domande prima ancora di essere costretti a chiedere assistenza.
In quest’ottica diventa fondamentale tener conto del contesto emotivo dello spazio per il quale si realizza un sistema di wayfinding: pensiamo a quanto possa essere delicata la sua applicazione in un ospedale, per esempio.
Concentrarsi sulla funzionalità del sistema di wayfinding permette inoltre di superare la dicotomia “bello” vs. “efficace” che spesso caratterizza molti progetti.
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