Alessandra Micalizzi: la psicologia dell’abitare come strumento per progettare spazi identitari.

Alessandra Micalizzi, psicologa e sociologa con dottorato in comunicazione e nuove tecnologie, si è sempre occupata di ricerca diventando professoressa associata di sociologia dei processi culturali e comunicativi mantenendo sempre questa passione tra discipline non sempre affini.

In collaborazione con l’arch. Caterina Malinconico ha strutturato per MEM il percorso formativo: “Progettazione e psicologia nella casa” in partenza lunedì 27 novembre: quattro appuntamenti per consegnare ai progettisti basi solide e concrete per progettare spazi che rappresentino le esigenze di chi li abita.

Occupandomi di nuove tecnologie mi è capitato di riflettere sull’uso degli spazi digitali come quelli connessi alla VR, ambienti ricreati appositamente per la fruizione di determinate esperienze, che mi hanno permesso di approfondire come gli utenti utilizzano questi spazi” – Dott.ssa Alessandra Micalizzi.

MEM: Buongiorno Dott.ssa Micalizzi, inizierei subito nel chiederle come nasce questa sua specializzazione al mondo dell’abitare?

A.M.: L’interesse per spazi digitali mi ha portato a conoscere designer di avanguardia che sfruttavano gli ambienti digitali per consentire la familiarizzazione con nuovi progetti di riqualificazione degli interior, alimentando il mio interesse al contesto specifico dell’esperienza abitativa.

In passato mi ero già occupata di psicologia dell’abitare, una disciplina nuova a tutti gli effetti, non esisteva prima del 2018, cioè prima dell’uscita del manuale “Psicologa dell’abitare Marketing, Architettura e Neuroscienze per lo sviluppo di nuovi modelli abitativi” scritto a quattro mani con il Dott. Tommaso Filighera.

Il testo nasce grazie ad un imprenditore illuminato che ha deciso di investire in questa direzione: progettare spazi che mettessero al centro l’utente. Da questo manuale ho costruito una fitta rete di collaborazioni come con lo studio Visioni interne con cui ho realizzato dei percorsi precisi con clienti privati.

I clienti portavano la loro esigenza incontrando prima il designer e poi tre colloqui di approfondimento con me, dai quali redigevo una relazione, una linea guida del progetto, realizzato in VR e sottoposto al cliente durante un incontro finale.

Lo sviluppo dell’esperienza in realtà digitale contribuiva tantissimo al livello di soddisfazione finale rispetto al progetto, generando un incontro tra le attese e i desideri che i clienti non aveva verbalizzato a livello razionale ma che erano emerse dai colloqui.

Abbiamo così iniziato a considerare il committente prima di tutto come individuo e poi come cliente, come mero utilizzatore di quegli spazi, con esigenze pratiche e funzionali.

Da quel saggio è nata anche una collaborazione con uno studio che si occupa di riqualificazione di ambienti organizzativi, dove non sfruttiamo le variabili psico-dinamiche ma quelle dimensioni che rientrano nell’area della neuroarchitettura, quindi le caratteristiche dell’ambiente che influiscono sul percepito e sulla sensazione di benessere dell’individuo.

Anche in questo caso procediamo su un protocollo che stiamo pian piano standardizzando, abbiamo già portato a termine dei progetti ottenendo discreti risultati, l’idea è continuare a fare ricerca, vi anticipo che nel 2024, pubblicheremo “Psicologia dell’abitare 2”.

 

MEM: Ha parlato di desideri, possiamo inserire anche il concetto di bisogni inconsci?

A.M.: Sì, diciamo che il bisogno inconscio, poi lo racconteremo meglio durante il corso per chi avrà voglia di approfondirlo, ha una dimensione più fisiologica, generata da una distanza tra la condizione ottimale del committente e quella attuale, quindi non è altro che quella spinta fisiologica e, di conseguenza adattiva, che percepiamo ad esempio verso il cibo, oppure il riposo, la compensazione di uno squilibrio dello stato di benessere proprio a livello di organismo.

Il desiderio riguarda la forma, il costrutto che creiamo attorno al bisogno e quindi denota una forte componete culturale oltre che identitaria, ogni individuo declina il bisogno modo diverso e non dobbiamo dimenticarci che lo declina in base a una serie di alternative che ci fornisce la cultura.

Quindi al centro della riflessione dell’abitare, c’è la triangolazione delle tre dimensioni: amnestica, simbolica ed identitaria, ed è da qui che è necessario partire per progettare.

MEM: Com’è nata questa interessante collaborazione con l’arch. Malinconico?

A.M.: Da un incontro biografico-professionale, ci siamo conosciute perché Caterina coordinava un corso triennale in design e aveva necessità di una figura che si occupasse della parte più socio-culturale, ed è stata un’ottima collaborazione grazie sia alle sue visioni dell’architettura molto umanistiche e umanizzate, sensibili ai bisogni dell’umano.

Da questo incontro meramente professionale ne è nato qualcosa di più e abbiamo collaborato anche in altri ambiti, sia nella progettazione sia in attività formative.

MEM: Quanto è necessario per un progettista o uno studio di progettazione essere affiancato da figure specializzate come la sua?

A.M.: Sì, secondo me la collaborazione è sempre più richiesta e fondamentale.

Ce lo dice il mercato, se osserviamo ad esempio le pubblicità connesse alla vendita di nuovi spazi abitativi che premono molto su questa dimensione, anche se rimane sempre una retorica un po’ classica dell’abitare associata alla famiglia, al tradizionale che cerca un equilibrio fra il verde e una serie di servizi, questo tipo di narrazione ci dice che si sta spostando l’attenzione da un uso della casa e i relativi confort domestici al vero significato di abitare, anche se ripeto, ancora non lo fanno in modo sufficientemente maturo.

Dall’altra parte, ce lo confermarono gli utenti stessi, tutte le volte che sono stata coinvolta nell’attività di consulenza ho visto proprio portare qualcosa di individuale.

Durante la formazione ad architetti per percorsi di accreditamento, spesso ho sentito dichiarare che al centro del rapporto con il committente, c’era questa difficoltà nella gestione della relazione, due linguaggi diversi che porta ad una frustrazione precisa tra le competenze dell’architetto e le idee del cliente, che spesso assurge ad “architetto ingenuo”, cercando di imporre il proprio punto di vista, senza tenere conto dei vincoli formali a cui il professionista deve sottostare.

Così, generalmente si assiste a un approccio polarizzato, una dinamica di scontro più che di incontro, una contrapposizione di vedute, in modo competitivo, più che collaborativo.

Così facendo si genera un conflitto come se ci fossero due fazioni quella tecnica del progettista, che porta una serie di vincoli, e quella psicologica ed esperienziale dell’utente che avverte insoddisfazione perché si sente dire: “No questo non si può fare, quest’altro non si può fare…”; dall’altra parte la frustrazione é anche del progettista che sente di non esser riconosciuto per le sue competenze.

Secondo me è sempre più necessario, portare equilibrio in questa relazione e lo si può fare se si pone al centro ancora una volta il cliente e le sue esigenze.

 

MEM: Interessantissimo questo nuovo punto di vista, ogni terapeuta dà una propria collocazione a questa diatriba che in realtà dovrebbe essere un rapporto fatto di complicità e ascolto, affinché il progettista diventi il braccio destro del desiderio del cliente, oggetto di confronto anche nelle tavole rotonde di MEM, che genera frustrazione da una parte e dall’altra.

A.M.: C’è sempre più bisogno di una progettazione congiunta e multidisciplinare, dobbiamo imparare a parlarci, a stare insieme e a costruire questi team multidisciplinari ma, onestamente, ancora sento tante resistenze.

Un corso come quello che stiamo proponendo su MEM, ha proprio la funzione di unire le due figure professionali, se lo segue un architetto o un interior designer, gli consentirà di apprendere quel linguaggio. 

Entrando veramente in relazione con il cliente emerge abbastanza chiaramente il modo di vivere lo spazio.

 

MEM: Questa risposta apre la strada alla prossima domanda che è relativa alla ricerca, di cui si è occupata per anni, come ha già introdotto inizialmente. Ha piacere di condividere una delle ricerche relative all’abitare o comunque sugli spazi residenziali?

A.M.: Sì, abbiamo condotto una ricerca speculativa ovvero con l’intento di fare puramente ricerca non con una finalità progettuale, in collaborazione con un brand che si occupa di elementi d’arredo per il bagno.

Quella ricerca era finalizzata a comprendere in che modo la pandemia avesse influito sulla gestione degli spazi, perché avevo in testa un’idea molto ambiziosa: costruire dei profili abitativi, volevo incastrare quelle trame tipiche della psicologia della personalità con le caratteristiche e il modo di percepire l’ambiente.

Abbiamo creato uno strumento specifico provando ad incrociare le relazioni e le correlazioni statistiche, ma non erano sufficientemente forti per farci parlare di profili abitativi. Questo ritengo sia anche un bene perché significa che c’è ancora quella dimensione individuale che va tutelata e ha senso approfondire il senso di abitare del committente. Quello che è emerso è che ci sono cinque cluster con cui si evidenziano proprio delle relazioni tra fasce d’età, quindi fasi della vita e i modi di vivere l’ambiente, come la rigidità che caratterizza gli spazi abitativi di persone mature, perché dettate da determinate esigenze. Ad esempio la necessità di predisporre le cose sempre nello stesso posto, input particolarmente utile nella progettazione delle RSA, dal quale emerge la necessità di creare spazi estremamente personalizzati, perché queste persone hanno bisogno di ritrovare il loro spazio per potersi sentire a casa.

Abbiamo inoltre compreso come l’esperienza olfattiva sia completamente diversa tra i cinque profili abitativi, che è tanto più forte quanto più si è maturi, ed è proprio nel gruppo più maturo che la ricerca dell’odore di casa era un elemento, un discrimine molto molto forte.

Coloro che si trovavano in una fase di transito, l’aspetto determinante era quello funzionale, come per i più giovani che studiano fuori città (18-25 anni), il loro modo di vivere la vita è funzionale quindi non sarà necessario progettare spazi grandi, perché le loro esigenze sono molto più flessibili. In questo caso, l’aspetto più importante è quello economico quindi legato a una gestione razionale degli spazi in cui poter svolgere più funzioni con un budget molto limitato, informazioni utili per formulare la giusta proposta progettuale.

 

MEM: Un percorso formativo come quello creato per MEM può dare delle basi utili al progettista per poter entrare nella sfera più intima del committente…

A.M: Secondo me sì soprattutto per comprendere una serie di segnali, codici e strumenti adattati alle proprie competenze, io mostrerò quei strumenti che utilizzo solitamente ma che si possono riadattare alla figura del progettista, grazie anche a strumenti propri che apprenderanno con l’Arch. Malinconico.

 

MEM: Durante il MEMDAY l’arch. Malinconico, ci ha illustrato il suo secondo intervento che mira a dare informazioni basiche e necessarie per comprendere i principali generi abitativi e le principali dimensioni di personalità. Quali sono i fattori determinanti che hanno portato alla nascita di nuovi generi abitativi? E come mai diventa sempre più fondamentale comprenderli?

A.M.: Non so esattamente se siano nuovi questi generi abitativi, non essendoci studi pregressi è difficile fare una comparazione, secondo me c’è stato sempre un modo di vivere l’abitare diverso in funzione di alcune caratteristiche che ti ho menzionato prima, solo che eravamo abituati a una visione della casa e dei prodotti che la occupavano attraverso il concetto di stile di vita, modalità che ha caratterizzato gli studi e le ricerche sulle pratiche abitative, negli anni ’80 e ‘90.

Quello che abbiamo provato di nuovo è proprio il concetto di casa come meta-oggetto quindi oggetto che contiene oggetti, un concetto immobile, in realtà dentro gli spazi residenziali c’è una grande dinamicità.

La casa è fatta di relazioni che partono all’interno, ci sono vissuti specifici, le persone che la abitano si appropriano di quello spazio in modo differente, definendo modi diversi di appropriarsi della casa.

È cambiato il livello di consapevolezza, un nuovo approccio alla casa non più come immobile quindi mattone, ma come spazio costruito in funzione delle esigenze di chi lo abita.

 

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